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Da zero a dieci. Da nulla a tanto. Da szeru a triplete in tanti secondi (e terzi, quarti, quinti, ecc.) posti. Banale giochino di fine anno, sicuro. Ma anche metafora di una squadra che è passata dallo zero assoluto al tutto più relativo. Troppi i volti, gli eventi, i ricordi, le polemiche, i timori e i tremori di un 2010 vissuto pericolosamente per includerveli tutti. Ma, appunto, è un gioco e il bello che è opinabile da tutti, quindi ri-giocabile più e più volte. E (dovrebbe essere scontato senza il bisogno di sottolinearlo ma non si sa mai…) senza volontà auto-celebratorie, sfottò o dimenticanza del senso critico nella giacca di riserva: il 2010 è stato l’anno dell’Inter perché era giusto così, ma anche perché la Dea Bendata ha dato una mano, la Samp ci ha messo un piede (facciamo due, vah…), il Milan ha fatto harakiri, Mou ha introdotto la formula-Champions’ al momento giusto, Santo Stinco ha vegliato sulla rosa nerazzurra, Benitez è stato il tecnico più vincente della storia del calcio nell’Inter-regno meno lungo che si ricordi, Moratti ha fatto il presidente, l’allenatore l’allenatore, i tifosi i tifosi. E tanti altri motivi. I numeri da 1 a 10 non bastano. E, a pensarci bene, quelli da 0 a 5 sono pur sempre delle insufficienze: tante in un anno a dir poco epocale. Ci proviamo. Sennò il bello dov’è?

ZERO (tituli) – Perché non tutte le ciambelle escono col buco. E l’isteria collettiva dell’ambiente interista la scorsa primavera (magari giustificata per il clima che tirava e giustificabile per quella ‘tripletta’ che la stampa quasi imponeva) a posteriori non è piaciuta. Ha esacerbato gli animi, aumentato l’ostilità. Se non si fosse vinto… Tutto bene alla fine ma avremmo preferito un lunghissimo silenzio-stampa alle frasi sibilline (ma anche alle sconclusionate repliche dei ‘Nemici’).

UNO (di noi) – Prego. Grazie. Arrivederci. Più o meno così è stato messo alla porta Lele Oriali. Nella vita nulla è eterno, manco i matrimoni (giusto così): figuriamoci i contratti e quelli con le ‘bandiere’. Ma la cacciata – diciamo le cose come stanno – del dirigente nel dopo-Mou è inspiegabile. Uno degli artefici di questi successi era il mediano cantato nella canzone, eppure con l’arrivo di Benitez è stato trattato come una pezza vecchia. Infatti dopo sei mesi ecco il nuovo ribaltone tecnico… P.s. Oriali era quello che al “Camp Nou” corse con Mourinho, ‘proteggendolo’ quasi dai 100.000 e dagli idranti, nella folle corsa dopo il 90′. Accompagnandolo. È un’immagine simbolica, ma mica tanto.

DUE (ragazzi) – La gestione dei giovani. Ok che per un Arnautovic che se ne va (in fondo un brocco non era: ma quando hai davanti Eto’o hai voglia a fare panca…) arriva un Coutinho ancora 18enne e scelto dalla FIFA tra i 20 migliori giovani dell’anno. Convince meno il non aver dato spazio ai Primavera che pure si erano ben comportati nonostante lo scarso minutaggio: Krhin, Stevanovic… Bonucci era dell’Inter ma si è deciso di puntare su Ranocchia: sono scelte, i due di equivalgono. Ma il difensore ex-Arezzo costerà un bel po’ e ora si mormora di Andreolli. L’ennesimo cavallo di ritorno che l’Inter si riprende, pagandolo. Peccato: era già suo.

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Alla fine tutto torna (e lasciamo stare le polemiche-del-giorno-dopo – mai prima che poi è troppo difficile parlare a sproposito – su quanto poco probante fosse l’impegno): nel 2010 chi più di una squadra internazionale, nel DNA prima ancora che nella rosa e nel nome, poteva salire sul tetto del mondo? Tra carneadi accorsi da ogni dove, spocchiosi brasiliani – che nel calcio sono i primi a livello tecnico ma anche nelle pompose dichiarazioni programmatiche – e gli irriconoscibili Campioni d’Europa l’hanno spuntata questi ultimi. Terzo alloro intercontinentale, certo incomparabile alle sfide all’arma bianca dei Sessanta contro gli assatanati argentini dell’Independiente, e la sensazione che, più che aprire un’epoca, questo ancora giovane Mondiale FIFA abbia già detto tutto.

Gli avversari, si diceva. Mettiamo le cose in chiaro: non è che se in finale non ci arriva la solita sudamericana il trofeo perda importanza. Il rischio, come si è visto, c’è ogni anno. Se i messicani del Toluca e il temibile Internacional de Porto Alegre, smanioso di mettere in vetrina la solita carrellata di giovani manzi pronti (?) per l’Europa, han fatto magra figura perdendo contro i congolesi del Mazembe (quelle partite che se le giochi altre 99 volte vinci sempre) allora c’è qualcosa che non va. Pure quando il Milan ha ‘trionfato’ contro il mediocre Boca Jrs. s’è vista una finale a senso unico, ma quando c’è di mezzo l’Inter certe cose si dimenticano.

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Questa è una storia che comincia dalla fine e quindi non sappiamo se tutti i personaggi che vi sono menzionati vivranno poi davvero felici e contenti come tradizione vuole. Una storia dove il Principe non è propriamente bello e affascinante e, anzi, ha sempre i capelli scarmigliati, porta la maglietta della salute (per giunta non di quelle aderenti, dry-fit ed elasticizzata alle esigenze dello sponsor di turno), esulta in modo scomposto e poco ‘poser’ e non ha mai avuto una reggia tutta sua, ma ha sempre dovuto sudarsi il titolo nobiliare – estremo paradosso in una società, soprattutto quella italiana, dove il pedigree conta solo fino a quando non sai fare nulla – sui campetti delle periferie dell’Impero. Questa è la storia di uno che non sarà mai, de facto, Re ma ha scelto di rimanere sempre un passettino indietro nelle gerarchie della Storia, a fare il n.2 prima che il ’22’, per starle davanti e indirizzarla verso il lieto fine di cui sopra. Diego Alberto Milito, il regnante di sangue blu (e dopo la finale di Champions’, anche un po’ nero) che bacia i rospi per diventare principe.

Diego Milito, nato a Bernal il 12 giugno 1979, ha sempre avuto in sé l’animo da operaio del pallone, immune ai germi del divismo calcistico: la sua famiglia è originaria della Calabria, con l’anima argentina ad affinare e sgrezzare un talento che, come accade in questi casi, non è mai visibile ad occhio nudo ma, anzi, si manifesta con l’uso continuo, la consunzione invece che con lo sfoggio occasionale e la vuota ammirazione dello scintillio che emana. Il curriculum in patria si esaurisce tutto nella Milit…anza nel Racing Avellaneda, sempre diviso dalla sorte dal fratello più piccolo, Gabriel, che a quei tempi giocava per l’Independiente, ovvero gli acerrimi rivali del Racing. Numeri onesti, da buon faticatore delle aree avversarie (34 reti in 137 partite): da valletto del fronte d’attacco più che da Principe dei fatidici 16 metri. La svolta è la chiamata al Genoa, la società più ‘sudamericana’ della Serie A e che con l’Argentina ha sempre avuto un cordone ombelicale privilegiato: l’arrivo in Italia e la gavetta in Serie B dove diventa l’idolo della tifoseria rossoblu, mancando di poco il titolo di capocannoniere.

Poi il fallimento del Grifone e l’esilio al Real Saragozza dove finalmente si unirà al fratello. Anche nella Liga Diego e il titolo nobiliare si toccano, si sfiorano ma non si raggiungono mai: il ‘Pichichi’ nel 2006/07 è Van Nistelrooy (allora al Real Madrid, una città che in questa nostra storia tornerà più volte, NdR) e il futuro ‘Principe’ è secondo (altro numero che ritroveremo alla fine del viaggio dell’Eroe). Tra le future gemme alla corona che indosserà a Madrid (ancora tu?!) in una serata di maggio di tre anni dopo, una quaterna rifilata al Real – evidentemente inscritto nel destino scritto dai bizzosi Dei del Calcio – in uno storico 6-1. Poi, ancora una retrocessione a sancire la fine di un amore con la tifoseria di turno e il ritorno al Genoa, di nuovo in B: chi l’ha detto che le minestre riscaldate non son buone? Alla mensa dei poveri tutto fa brodo. Il resto è storia, pardon, favola dei giorni nostri col 2009 genoano coronato da ben 24 reti, il ‘Guerin d’Oro’, e il premio di ‘Calciatore più amato dai tifosi’. Quei ‘tituli’ che, non è retorica, nell’Italia dei campanili valgono molto più di una coppa in acciaio e argento.

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